Il quadro giuridico.
Al fine di introdurre la tematica trattata, non si può prescindere da una preliminare analisi del panorama delle successioni e di come questo, in alcuni casi, possa intersecarsi con il mondo dell’impresa.
Ogni imprenditore, infatti, deve essere consapevole del fatto che, dopo di lui, la realtà d’impresa che ha costruito nel tempo (magari con tanti sforzi e sacrifici, attraversando avversità, resistendo alla tentazione di vendere oppure dovendo sopportare i fisiologici sali e scendi del mercato e così via) passerà nelle mani dei suoi eredi: quindi, nelle mani di coloro che, una volta accettata l’eredità, subentreranno nella proprietà di alcuni beni specifici ovvero nella universalità dei beni del de cuius.
È proprio sul periodo successivo alla sua morte, allora, che spesso e volentieri si concentrano i pensieri dell’imprenditore: è fisiologico, infatti, che la domanda principale sia “chi mi succede, riuscirà a portare avanti quanto ho costruito?”.
In questo contesto, un primo strumento per evitare che l’azienda di famiglia (così come le partecipazioni) cadano in mani sbagliate è certamente il testamento, ovvero quel documento che ciascuno di noi può redigere e con cui dispone dei suoi beni per il periodo successivo alla morte.
La Legge impone tuttavia dei limiti invalicabili anche nella redazione del testamento: questo, infatti, dovrà necessariamente rispettare le norme del codice civile in tema di quota legittima.
Al primo comma dell’articolo 536 c.c., invero, il Legislatore precisa la definizione di “legittimari”, individuandoli come
“Le persone a favore delle quali la legge riserva una quota di eredità o altri diritti nella successione”
che nello specifico sono il coniuge, i figli (ai quali sono equiparati ormai da tempo i figli adottivi) e gli ascendenti.
Ciò significa che anche nella redazione del testamento, il de cuius deve assicurare che una certa parte del suo patrimonio sia destinata a coloro che, per legge, ne devono essere i destinatari.
In altri termini, l’assenza di coniuge, genitori e figli permette al testatore di disporre come meglio crede dei suoi averi; ove presenti, diversamente, egli dovrà redigere il proprio testamento in considerazione di questi soggetti, devolvendo loro una certa parte del proprio patrimonio, nel rispetto delle previsioni del codice civile.
Trattasi, orbene, di un tema di particolare rilevanza pratica, in quanto la mancata (o solo parziale) attribuzione patrimoniale ad uno o più dei legittimari può facilmente essere la causa di vertenze in materia successoria. La lesione della quota di legittima, invero, attribuisce al legittimario il diritto di impugnare (con azione di riduzione) il testamento viziato, allo scopo di far dichiarare invalidi (integralmente o parzialmente) gli atti, inter vivos o mortis causa, che hanno prodotto la lesione.
In questo contesto, già di per sé molto complesso ed articolato, si inserisce la novità del patto di famiglia, quale contratto inter vivos che tuttavia è destinato a produrre effetti nel periodo successivo alla morte dell’imprenditore.
Precisamente, a norma dell’articolo 768 bis c.c.:
“È patto di famiglia il contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti.”
Il patto di famiglia assume allora una spiccata caratteristica divisionale del patrimonio dell’imprenditore, non molto dissimile ad una (sorta di) anticipata successione relativamente al patrimonio (o parte di esso).
La struttura su cui il Legislatore ha modellato l’istituto – ossia strutturandolo come una fictio iuris –confermerebbe che si è in presenza di uno strumento negoziale diretto a regolare la successione anticipata dell’imprenditore, come se nel momento temporale della conclusione del contratto di patto di famiglia si venga ipoteticamente ad aprire la successione, in un momento temporale, cioè, diverso da quello canonico che è la morte.
In altri termini, la ratio sottesa all’istituto è di permettere all’imprenditore di destinare la propria azienda ovvero le proprie partecipazioni solo ad uno od alcuni dei suoi discendenti (c.d. assegnatari), in quanto ritenuti più meritevoli o, meglio, più capaci di condurre il progetto d’impresa nel periodo successivo alla morte dell’imprenditore.
Nel contesto precedentemente delineato, è chiaro che l’istituto del patto di famiglia deve necessariamente coordinarsi con le disposizioni in materia successoria e, in particolare, con le norme in tema di quota di legittima. È chiaro, infatti, che nonostante il patto di famiglia sia un contratto inter vivos, deferendo i propri effetti al periodo successivo alla morte dell’imprenditore, è strumento che – se usato impropriamente – può condurre alla lesione della quota di legittima.
I necessari partecipanti al patto di famiglia.
Da una prima lettura del citato nuovo disposto codicistico, avulsa dal resto delle altre norme, e in virtù della sua rubricazione, sembrerebbe potersi dedurre che il contratto costitutivo del patto di famiglia dovrebbe intercorrere tra due sole parti soggettive, ossia l’imprenditore e/o il titolare di partecipazioni societarie e uno o più discendenti, dal che se ne dovrebbe trarre l’ulteriore conclusione secondo cui ci si troverebbe innanzi ad un contratto a struttura bilaterale: le parti essenziali del patto di famiglia sarebbero pertanto solo costoro.
Senonché, proseguendo nella lettura della legge, il citato art. 768 quater, al 1° co., sembrerebbe smentire subito l’assunto testé proposto giacché, come detto, viene stabilito, con regola che appare imperativa e, quindi, inderogabile dalla volontà delle parti, a pena di nullità ex art. 1418, 1° co., c.c., che al contratto in questione devono partecipare anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore.
Dal che se ne dovrebbe trarre allora una diversa conclusione:
il patto di famiglia non sarebbe un contratto a struttura bilaterale ma, invece, a struttura plurilaterale, giacché sarebbero parti essenziali del contratto de quo, ab origine e a pena di nullità, non solo l’imprenditore e/o il titolare di partecipazioni societarie e gli assegnatari, ma anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore.
Ma a complicare ulteriormente l’opera dell’ermeneuta vi è l’art. 768 sexies, 1° co., c.c., nel quale si prevede espressamente una particolare disciplina, operante al momento dell’apertura della successione dell’imprenditore (disponente), che estende i benefici del patto di famiglia una volta stipulato anche in favore del coniuge e degli altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto: da tale previsione normativa, allora, potrebbe desumersi, pertanto, che il coniuge e i legittimari non siano obbligati a partecipare al patto di famiglia giacché quest’ultimo, nonostante la loro assenza, sarebbe valido; la conclusione cui si perverrebbe sul piano giuridico sarebbe quella di poter sostenere positivamente ancora una volta che costoro non siano parti essenziali del contratto stesso, confermandosi per tale via la struttura essenzialmente bilaterale del patto di famiglia.
Rilevata quindi la manifesta contraddizione in cui è incorso il legislatore, è inutile evidenziare che la questio iuris de qua appare molto delicata ed assume notevole rilevanza non solo sul piano teorico ma anche su quello pratico, giacché nella realtà non sarà infrequente il verificarsi di casi in cui uno o più legittimari non possano o non vogliano intervenire all’atto, per cui lo stabilire se costoro siano parti essenziali o meno inciderà sulla possibilità di ritenere perfezionabile o meno il contratto di patto di famiglia nel caso di loro assenza o rifiuto a partecipare.
Nel tentativo di risolvere l’annosa questione non si può certamente esimersi dal rilevare che la disciplina del patto di famiglia appare del tutto ispirata al criterio del coinvolgimento necessario, obbligatorio di tutti i legittimari esistenti in un dato momento temporale.
Un primo (ma determinante) suggerimento proviene dal tenore letterale dell’art. 768 quater, 1° co., c.c., del quale l’inciso “devono partecipare” riferisce chiaramente al fatto che al contratto devono partecipare anche i discendenti che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nonché il coniuge.
In considerazione di quanto detto, appare coerente con la funzione assegnata dal Legislatore al patto di famiglia – e quindi con la ratio dell’istituto – la tesi che prevede la necessaria partecipazione al contratto di tutti coloro che sarebbero legittimari se la successione si aprisse in quell’istante.
La soluzione conduce a concludere, in particolare, che se uno dei legittimari non assegnatari non possa o non voglia intervenire all’atto, non potrà procedersi alla conclusione del contratto di patto di famiglia e si dovrà, pertanto, ricorrere all’utilizzo di altro strumento negoziale per assicurare la trasmissione dell’azienda e/o delle partecipazioni societarie.
La “liquidazione” dei legittimari non assegnatari.
Alla luce di quanto anzi esposto, è chiaro che l’istituto in commento contempera due opposte esigenze: da un lato la libertà dell’imprenditore di lasciare l’azienda o le partecipazioni sociali (solo) a chi viene ritenuto più abile; dall’altra la necessità di rispettare le norme di legge in tema di quota di legittima.
Per comprendere la problematica è necessario partire da un assunto fondamentale:
il patto di famiglia è un contratto stipulato tra vivi (inter vivos) ma destinato ad incidere per il periodo successivo alla morte dell’imprenditore.
Da qui, la necessità di impedire che l’istituto possa fungere da escamotage per eludere la disciplina civilistica in materia di quota legittima, prevedendo in sede contrattuale l’esclusione dall’eredità di colui o coloro aventi diritto a parteciparvi.
Pertanto, a norma dell’art. 768 quater, comma 2, c.c., a fronte dell’attribuzione liberale dell’imprenditore in favore di uno o più discendenti assegnatari, questi saranno tenuti a corrispondere ai legittimari del disponente (o meglio, coloro che risulterebbero tali ove in quel momento si aprisse la successione del medesimo), che devono partecipare al patto, una somma di denaro corrispondente al valore delle quote di legittima loro spettanti, da rapportare ai soli beni oggetto dell’accordo.
La “liquidazione” dei legittimari non assegnatari, cui i medesimi possono rinunciare, può avvenire con lo stesso patto di famiglia, o con successivo contratto ad esso “espressamente dichiarato collegato” (art. 768 quater, comma 3, c.c.).
In ogni caso, le attribuzioni percepite dai legittimari in funzione liquidatoria sono imputate, secondo il valore loro attribuito in contratto, alle quote di legittima spettanti ai medesimi (art. 768 quater, comma 3, c.c.). Inoltre, le attribuzioni effettuate con il patto di famiglia sono, in forza del disposto dell’art. 768 quater, comma 4, c.c., dispensate da collazione e sottratte all’azione di riduzione.
Ai legittimari non assegnatari viene dunque liquidata una somma, o attribuiti beni in natura, per valore corrispondente alla quota di legittima loro spettante, in cambio della rinuncia ad ogni pretesa sull’azienda e/o sulle partecipazioni societarie oggetto dell’accordo.
La loro tacitazione avviene sulla base di un valore convenzionale, quello dell’azienda e/o delle partecipazioni societarie, la cui quantificazione e fissazione costituisce un elemento essenziale del patto di famiglia, in deroga al principio per cui la determinazione dei diritti dei legittimari si compie in base al valore dei beni oggetto di disposizioni al momento di apertura della successione.
Conclusioni.
Il patto di famiglia previsto dal nostro Legislatore all’articolo 768 bis c.c. rappresenta una seria alternativa alla disposizione testamentaria.
Attraverso la stipulazione di un contratto (e quindi di un atto inter vivos) l’imprenditore potrà trasferire la propria azienda ovvero le proprie partecipazioni sociali a solo uno o ad alcuni dei suoi discendenti, ritenuti da lui più abili nel proseguire l’attività d’impresa nel periodo successivo alla sua morte.
D’altra parte, al fine di rispettare le previsioni codicistiche in tema di quota legittima e, quindi, per non esporsi al rischio ad una declaratoria di nullità del contratto di patto di famiglia ex art. 1418 c.c., è necessario che l’accordo venga sottoscritto da (e quindi coinvolga) tutti i soggetti che, se la successione dell’imprenditore fosse in quel momento aperta, sarebbero eredi legittimari e, come tali, titolari del diritto di ricevere una certa quota del patrimonio dell’imprenditore.