La clausola simul stabunt simul cadent nelle società di capitali. L’illegittimità della sua invocazione quando preordinata all’esclusione dell’amministratore sgradito.

La cessazione dalla carica degli amministratori: cenni sul regime di c.d. prorogatio.

In generale, gli amministratori hanno il compito di gestire (per l’appunto, amministrare) la società nei limiti e nel rispetto dell’oggetto sociale e di rappresentarla nei rapporti con i terzi. L’operato dell’organo gestorio si sostanzia, pertanto, nella realizzazione dell’oggetto sociale, dando seguito alle decisioni deliberate dall’assemblea dei soci.

È chiaro quindi che gli amministratori rappresentano il braccio operativo della società e il loro venir meno, per le cause più disparate, può portare ad uno stallo dell’attività sociale.

Al fine di evitare una simile situazione di empasse, il Legislatore ha introdotto il sistema della prorogatio, per cui alla luce delle dimissioni di uno o più dei componenti del consiglio di amministrazione, gli uscenti rimarranno in carica sino alla nomina dei loro sostituti.

Il riferimento legislativo in materia di società di capitali è l’articolo 2385 c.c., secondo cui:

La cessazione degli amministratori per scadenza del termine ha effetto dal momento in cui il consiglio di amministrazione è stato ricostituito.”

Il legislatore sancisce il principio della continuità dell’organo gestorio e dispone la prorogatio della funzione amministrativa per il periodo compreso tra il termine naturale del mandato e l’accettazione dell’incarico da parte degli amministratori che seguono. Gli amministratori scaduti conservano i poteri, anche se da tempo se ne discute la portata. Sul punto, invero, giurisprudenza e dottrina si interrogano su quelli che devono essere i contorni dei poteri attribuibili agli amministratori uscenti in regime di prorogatio, alla luce del carattere, per così dire, “transitorio” della loro carica.

Un primo orientamento tenderebbe ad individuare il discrimine nella differenza tra atti di ordinaria amministrazione e atti di straordinaria amministrazione, sicchè gli amministratori uscenti sarebbero ammessi a compiere legittimamente solo gli atti ordinari.

Un secondo e antitetico orientamento punterebbe l’attenzione sul requisito della necessità, per cui gli amministratori in prorogatio sarebbero ammessi a compiere solo gli atti necessari alla conduzione della società.

Ai due versanti se ne unisce poi un terzo, che legittimerebbe gli amministratori in regime di prorogatio a compiere ogni atto che rientri ordinariamente nelle loro attribuzioni, senza distinguere tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione ovvero atti urgenti e non urgenti.

 

La disciplina dell’articolo 2386 c.c. alla luce della riforma del diritto societario.

Posto quindi che la carica degli amministratori ha una durata limitata, la sua cessazione può avvenire per le cause più disparate e potrebbe riguardare – salvo che non si tratti di amministratore unico – tutti o solo alcuni dei membri del consigli di amministrazione: si pensi al caso della morte di uno degli amministratori, le dimissioni anticipate di uno o più di questi ovvero, più banalmente, la naturale scadenza del mandato.

Se allora, parlando di prorogatio, è stato necessario definire in quale momento cessa effettivamente la carica dell’amministratore uscente, assume parimenti importanza ai fini della trattazione focalizzarsi sul meccanismo attraverso il quale gli amministratori uscenti vengano sostituiti.

La norma di riferimento è l’articolo 2386, che ai commi 1 e 2 recita:

Se nel corso dell’esercizio vengono a mancare uno o più amministratori, gli altri provvedono a sostituirli con deliberazione approvata dal collegio sindacale, purché la maggioranza sia sempre costituita da amministratori nominati dall’assemblea. Gli amministratori così nominati restano in carica fino alla prossima assemblea.

“Se viene meno la maggioranza degli amministratori nominati dall’assemblea, quelli rimasti in carica devono convocare l’assemblea perché provveda alla sostituzione dei mancanti

Volendo parafrasare il testo di legge,

nell’ipotesi in cui uno o più amministratori venga meno nel corso dell’esercizio, gli altri amministratori provvedono alla loro sostituzione; ex adverso, se dovesse venir meno la maggioranza della compagine gestoria, allora spetterà all’assemblea il compito di deliberare la nomina dei nuovi amministratori.

D’altra parte, la principale novità legislativa è rappresentata dall’inserimento del quarto comma della norma, con cui il Legislatore apre alla possibilità di derogare al regime precedentemente descritto.

Al quarto comma dell’art. 2386 c.c. si legge infatti che:

Se particolari disposizioni dello statuto prevedono che a seguito della cessazione di taluni amministratori cessi l’intero consiglio, l’assemblea per la nomina del nuovo consiglio è convocata d’urgenza dagli amministratori rimasti in carica; lo statuto può tuttavia prevedere l’applicazione in tal caso di quanto disposto nel successivo comma.”

In altri termini, quella in commento non può che individuarsi come una norma di apertura ad uno speciale regime derogatorio, che le parti del contratto sociale posso prevedere mediante l’inserimento nello statuto, tra le altre, della clausola così nominata simul stabunt, simul cadent.

La clausola simul stabunt, simul cadent prevede la decadenza di tutto il consiglio di amministrazione al verificarsi della decadenza, delle dimissioni o comunque della cessazione dalla carica di uno o più amministratori.

Per dirla in altri termini: le dimissioni anche di un solo membro dell’organo gestorio determina l’immediata decadenza dell’intero consiglio di amministrazione.

Nonostante siano stati sollevati dei dubbi di validità, vi è la costante affermazione che essa non rappresenti affatto una deroga al principio della centralità della competenza assembleare, quanto piuttosto la sua consacrazione, essendo questa diretta proprio al fine di rafforzare (e non di attenuare) i poteri dell’assemblea.

La ricostituzione del consiglio per effetto dell’operare della clausola simul stabunt, simul cadent spetta infatti all’assemblea e, ove la decadenza dell’intero organo gestionale sia determinata dal venir meno della minoranza (o anche di uno soltanto) degli amministratori, la previsione statutaria in commento costituisce una deviazione esclusivamente dal principio della cooptazione di cui all’art. 2386, comma 1, che rappresenta a sua volta un’eccezione alla generale competenza assembleare in materia di formazione dell’organo amministrativo.

In altri termini, la clausola simul stabunt, simul cadent consente l’operare della regola generale anche in quei casi in cui sarebbe la legge stessa ad ammetterne la deroga.

 

L’uso abusivo della clausola della clausola simul stabunt, simul cadent.

Anche dopo la codificazione della clausola simul stabunt, simul cadent si è tuttavia posto il dubbio se potesse essere censurato un uso distorto della medesima.

In particolare, ci si è chiesti se sia legittimo liberarsi di un amministratore per qualunque ragione sgradito attraverso le dimissioni di altri amministratori, che poi saranno rieletti, mentre non lo sarà quello sgradito.

La clausola statutaria simul stabunt simul cadent prevede e determina una causa naturale di cessazione dalla carica di amministratore in base alla quale, a seguito delle dimissioni anche di un solo membro dell’organo gestorio, si determina l’immediata decadenza dell’intero cda, ma l’esercizio della clausola deve sempre essere valutato alla luce del principio generale di buona fede, al fine di armonizzarne il corretto ambito di operatività. Infatti, tale clausola – di per sé lecita e legittima – non deve essere utilizzata in modo strumentale e improprio, al fine di ottenere una revoca anticipata di uno degli amministratori in carica, senza che ricorrano quelle congrue motivazioni e quelle conseguenze onerose previste dall’art. 2383 c.c.

La soluzione della giurisprudenza è decisamente affermativa. Come afferma la seconda massima, la clausola simul stabunt può prestarsi ad un uso strumentale ogni qual volta le dimissioni di quell’amministratore o di quegli amministratori capaci di provocare la decadenza di tutto l’organo di gestione siano dettate unicamente o prevalentemente dallo scopo di eliminare amministratori sgraditi, in assenza di giusta causa, e quindi eludendo l’obbligo di corresponsione degli emolumenti residui ed in generale di risarcimento del danno.

Il riconoscimento dell’uso distorto della clausola in parola, quindi, consente agli amministratori non dimissionari decaduti di pretendere il diritto al risarcimento del danno, quando sia dimostrato che le dimissioni che hanno determinato l’effetto decadenziale sono state date abusivamente, cioè per scopi diversi da quelli per i quali è riconosciuto il diritto, peraltro amplissimo, a rinunciare alla carica, o strumentalmente, cioè per escludere l’amministratore sgradito così eludendo l’obbligo risarcitorio connesso alla revoca senza giusta causa.

Sul punto – e comunque nella medesima direzione, si segnala la recentissima pronuncia del Tribunale di Milano, secondo cui:

L’attivazione della clausola a pochi giorni dalla manifestazione del dissenso sul piano presentato dall’amministratore delegato e dall’invio della diffida da parte dei suoi legali rendeva chiaro l’intento ritorsivo della società convenuta che aveva illegittimamente operato la sua revoca senza giusta causa in modo tale da eludere l’obbligo di risarcimento del danno.”

Quando in presenza della clausola statutaria simul stabunt simul cadent le dimissioni di taluni membri del consiglio di amministrazione siano preordinate esclusivamente a consentire poi all’assemblea dei soci di rinnovare l’organo amministrativo con l’esclusione del solo componente sgradito per sottrare la società all’obbligo di indennizzo connesso all’adozione diretta di una deliberazione assembleare di revoca senza giusta causa può configurarsi l’ abuso nell’esercizio delle facoltà spettanti ai componenti degli organi sociali coinvolti, fonte dell’obbligo della società di risarcire il danno subito dal componente non dimissionario illegittimamente privato della prestazione indennitaria.” (Tribunale di Milano, sez. XV civile specializzata in materia di impresa, 29 febbraio 2024)

Parafrasando la sentenza, la configurabilità della fattispecie procedimentale dell’abuso in questione presuppone, in particolare:

(i) l’esercizio strumentale della facoltà di dimissioni da parte di taluni componenti del consiglio di amministrazione con il solo scopo di provocare la decadenza immediata dell’organo in vista della programmata esclusione da parte dell’assemblea convocata per il rinnovo dell’organo del solo componente sgradito;

(ii) la rinnovazione da parte dell’assemblea dei soci dell’incarico a tutti gli altri membri del consiglio con esclusione del solo componente non dimissionario;

(iii) il collegamento oggettivo e soggettivo tra le dimissioni dei consiglieri che hanno perfezionato la fattispecie statutaria della decadenza dell’intero consiglio di amministrazione e la successiva immediata nomina da parte dell’assemblea del nuovo consiglio di amministrazione composto da tutti i membri precedenti escluso quello non più gradito, connotato dall’esclusivo intento di ottenere la sua estromissione senza indennizzo dall’organo gestorio.

In chiusura, non si può certamente esimersi dal rilevare il gravoso onere probatorio posto a carico dell’amministratore che intenda far accertare giudizialmente l’esercizio abusivo della clausola, in conseguenza del quale incomberebbe su di lui

la prova del collegamento oggettivo e soggettivo tra le dimissioni dei consiglieri che hanno perfezionato la fattispecie statutaria della decadenza dell’intero consiglio e la successiva immediata nomina di un nuovo consiglio composto da tutti i precedenti componenti meno l’attore, nonché la prova della sua esclusiva finalizzazione all’estromissione dell’attore dal collegio degli amministratori e quindi all’ottenimento in via indiretta del risultato di revocarlo in assenza di giusta causa” (Tribunale di Milano, sez. spec. in materia di imprese, Sent., 14/01/2020, n. 247).

Nell’invocare l’abusività della clausola, l’attore sarà quindi tenuto a dimostrare che esclusiva finalizzazione della clausola alla sua estromissione dal collegio degli amministratori per il conseguimento di interessi extrasociali o di un gruppo della compagine sociale e quindi l’ottenimento in via indiretta del risultato di revocarlo in assenza di giusta causa (in questo senso: Tribunale di Torino, sez. spec. in materia di imprese, Sent., 25/07/2022, n. 3282).