Le sanzioni disciplinari: il licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo
Come accade di frequente, il rapporto di lavoro si interrompe prima della sua naturale estinzione, per cause che possono dipendere da scelte del datore di lavoro oppure dalla condotta del lavoratore. Dette cause sono sostanzialmente assimilabili a due categorie: quella del licenziamento e quella delle dimissioni.
Se infatti le dimissioni comportano una cessazione del rapporto per volontà del lavoratore, il licenziamento è espressione dell’intenzione del datore di lavoro di concludere prematuramente il rapporto con il lavoratore.
Il licenziamento può essere comminato per circostanze che dipendono o meno dalla condotta del lavoratore.
Precisamente, si parla di licenziamento per “giustificato motivo oggettivo” in tutti quei casi in cui – nonostante il tentativo obbligatorio di “repechage” – l’assetto organizzativo aziendale sia successivamente mutato in modo incompatibile con la permanenza del dipendente e le mansioni a lui affidate (ad esempio, nell’ipotesi della soppressione di un ramo d’azienda).
Diversamente si parla di licenziamento per “giusta causa” o per “giustificato motivo soggettivo” qualora il licenziamento si atteggi a massima sanzione disciplinare, in conseguenza di una condotta del lavoratore in contrasto con gli obblighi di diligenza e di fedeltà da lui assunti nei confronti del datore di lavoro (artt. 2104 e 2105 c.c). l’intensità della c.d. “crisi del rapporto fiduciario” è anche il principale criterio per distinguere tra “giusta causa” e “giustificato motivo soggettivo”.
Il licenziamento è la sanzione disciplinare più grave, poiché conduce ad una recisione definitiva del rapporto di lavoro, la quale dovrà necessariamente essere conseguenza di una violazione altrettanto grave.
Pertanto, il licenziamento dovrà essere comminato per “giustificato motivo soggettivo” quando il lavoratore che si sia reso autore di notevoli inadempimenti degli obblighi contrattuali, tali da giustificare l’interruzione del rapporto, anche se non con effetto immediato (ad esempio, nell’ipotesi di scarso rendimento): in questo caso, infatti, il lavoratore avrà diritto al periodo di preavviso.
Diversamente, il datore è legittimato ad applicare il licenziamento per “giusta causa” a fronte di infrazioni talmente gravi da impedire la prosecuzione, neppure temporanea, del rapporto di lavoro: in questo caso il lavoratore non avrà diritto nemmeno al periodo di preavviso previsto da contratto. La “giusta causa” verrebbe quindi integrata solo attraverso quelle condotte idonee in concreto a disintegrare il rapporto fiduciario con il datore di lavoro: esempi molto frequenti sono quelli dell’assenteismo ingiustificato, della presentazione di certificati di malattia falsi oppure del rifiuto ingiustificato e ripetuto ad eseguire la prestazione lavorativa.
In tema di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, la valutazione della gravità e proporzionalità della condotta rientra nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice di merito, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, con la quale viene riempita di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c. (Cass. civ., sez. lavoro, Ordinanza, 06.11.2023, n. 30866, mass. in Dir. e Pratica Lav., 2024, 20, 1276).
Il concetto di “disvalore ambientale”
Di creazione giurisprudenziale, l’elemento del cosiddetto “disvalore ambientale” è frutto della necessità – ravvisata in primis dagli Ermellini – di valutare la proporzionalità della sanzione inflitta dal datore di lavoro (specie quando si tratti di licenziamento) alla luce dell’effettivo impatto che l’infrazione può avere sull’ambiente di lavoro.
A parere dello scrivente, quindi, si potrebbe ritenere che l’intenzione della Suprema Corte sia quella di ampliare lo spettro dell’indagine sulla legittimità ed adeguatezza del provvedimento disciplinare applicato, attribuendo una certa rilevanza anche ad aspetti concreti che fuoriescono dalla dinamica, strictu sensu intesa, lavoratore – datore di lavoro.
L’idea di fondo è che il giudizio sulla proporzionalità della sanzione debba spingersi sino a considerare anche l’incidenza negativa della condotta sull’intero ambiente lavorativo e quindi, in particolare, sul resto del personale dipendente.
Non appare così difficile ipotizzare, infatti, che un certo tipo di condotta possa addirittura riflettersi negativamente sugli altri lavoratori, fungendo da modello diseducativo o comunque incentivando comportamenti scorretti anche da parte di coloro che assistono.
Si pensi, ad esempio, al lavoratore che resti ripetutamente assente senza fornire giustificazione, ovvero che screditi il datore di lavoro davanti al resto del personale ovvero, ancora, colui che si dimostri sciatto sul luogo di lavoro, rifiutandosi di adempiere alle mansioni a lui affidate.
La valutazione della condotta del lavoratore in contrasto con obblighi che gli incombono, allora, deve tenere conto anche del “disvalore ambientale” che la stessa assume quando essa può assurgere per gli altri dipendenti a modello diseducativo e disincentivante dal rispetto di detti obblighi.
Tale approccio – che può dirsi innovativo rispetto al passato – rileva ancor di più quando il giudice debba essere chiamato a valutare l’adeguatezza della sanzione disciplinare più grave, il licenziamento, specie se comminato per “giusta causa”.
Per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento occorre condurre una valutazione della condotta del lavoratore nella sua globalità, guardando alla gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale.
È fondamentale, del resto, che il provvedimento comminato sia proporzionale alla gravità e all’entità della condotta sanzionata.
Il licenziamento per giusta causa sarà quindi legittimo solo ove la condotta posta in essere dal lavoratore sia talmente grave da recidere il rapporto fiduciario senza possibilità di proseguire il vincolo contrattuale, neppure provvisoriamente.
In questi termini, è chiaro che la valutazione di eventuali “ripercussioni” negative sull’ambiente di lavoro potrebbe condurre a considerare una maggior gravità della condotta, che altrimenti non sarebbe emersa e, di conseguenza, l’adeguatezza del licenziamento per giusta causa.
Nei termini usati dagli Ermellini:
“l’accertamento deve essere svolto in base agli specifici elementi oggettivi e soggettivi della fattispecie concreta, quali tipo di mansioni affidate al lavoratore, il carattere doloso o colposo dell’infrazione, le circostanze di luogo e di tempo, le probabilità di reiterazione dell’illecito, il disvalore ambientale della condotta quale modello diseducativo per gli altri dipendenti” (in questo senso: Cass. civ., Sez. VI – Lavoro, Ord., (data ud. 08/02/2017) 04/04/2017, n. 8660; Cass. civ. sez. lav. Sent. 25.5.2016, n. 10842; Cass. civ. sez. lav. Sent. 21.5.2009, n. 11846).
Nel valutare la proporzione della sanzione disciplinare rispetto all’infrazione contestata, quindi, il giudice di merito deve esaminare la condotta del lavoratore, in riferimento agli obblighi di diligenza e fedeltà, anche alla luce del “disvalore ambientale” che la stessa assume quando, in virtù della posizione professionale rivestita, può assurgere, per gli altri dipendenti dell’impresa, a modello diseducativo e disincentivante dal rispetto di detti obblighi (così: Cass. civ., Sez. lavoro, Ordinanza, 06/09/2023, n. 25969, massima redazionale OneLegale.it).
Il caso giurisprudenziale: la sentenza della Corte di Cassazione n. 24619/2019
È opportuno evidenziare come, non di rado, le conseguenze “esterne” della condotta sanzionata possono assumere un particolare rilievo in relazione alla specifica posizione professionale rivestita dal dipendente e di responsabilità nel servizio svolto, in quanto modello diseducativo o comunque disincentivante nei confronti degli altri dipendenti della compagine aziendale, specialmente se a lui sotto-ordinati (così: Cass. civ., sez. lavoro, 04.12.2002, n. 17208).
Il caso affrontato dalla Corte di Cassazione nella sentenza 24619/2019 riguardava una dipendente con qualifica di gerente di un negozio di abbigliamento, che era stata licenziata per giusta causa per aver assunto plurimi comportamenti in contrasto con gli obblighi contrattuali di obbedienza, diligenza e fedeltà: tra gli addebiti, in particolare, il datore di lavoro le contestava di essersi assentata ripetutamente dal posto di lavoro senza autorizzazione, di aver indossato capi di abbigliamento destinati alla vendita e di aver ripetutamente rimproverato e mortificato le colleghe ad essa sottoposte.
Giunta la vertenza in sede giudiziale, il giudice di prime cure riconosceva la legittimità del licenziamento.
Tuttavia, la Corte d’Appello di Genova, in riforma della predetta pronuncia, accoglieva le doglianze della lavoratrice, rilevando come taluni dei fatti ad essa addebitati non fossero stati sufficientemente provati e che, in ogni caso, dalla loro valutazione non emergeva una gravità tale da giustificare il licenziamento.
Trascinatasi fino al terzo grado di giudizio, la Corte di Cassazione cassava con rinvio la pronuncia del gravame in considerazione del fatto che
“la sentenza impugnata ha omesso tale specifica e concreta valutazione, esaminando bensì puntualmente e ricostruendo i singoli fatti oggetto di addebito in sede disciplinare, ma concludendo la loro disamina con la mera affermazione, per la quale essi (quanto meno i fatti da ritenersi sufficientemente provati ed effettivamente esistenti) non sarebbero comunque “di tale gravità, nel loro complesso, da giustificare il licenziamento“.
In altri termini, la Suprema Corte ha rilevato che le plurime violazioni poste in essere dalla lavoratrice non avrebbero dovuto essere valutate singolarmente, bensì in un’ottica di insieme: solo alla luce del quadro complessivo della condotta sarebbe possibile verificare in concreto la proporzionalità e l’adeguatezza della sanzione applicata dal datore di lavoro.
Nel caso di specie, la Corte d’Appello non aveva valutati la gravità delle condotte alla luce del ruolo svolto dalla dipendente, che era (pacificamente) quello di gerente del punto vendita, e le connesse responsabilità tanto sul piano di un più intenso obbligo di diligenza, come del dovere di comportamenti tali da costituire positivi riferimenti per i propri sottoposti.
Gli Ermellini hanno così ribadito quello che oramai è un principio consolidato in giurisprudenza, per cui la proporzionalità e l’adeguatezza della sanzione disciplinare deve necessariamente essere valutata
“alla luce del “disvalore ambientale” che la stessa assume quando, in virtù della posizione professionale rivestita, può assurgere per gli altri dipendenti dell’impresa a modello diseducativo e disincentivante dal rispetto degli obblighi connessi al rapporto di lavoro” (Cass. civ., sez. lavoro, 02.10.2019, n. 24619).
Conclusioni
Al di là dei referenti tradizionali, costituiti dai connotati soggettivi ed oggettivi della condotta, parametrati agli obblighi contrattuali di diligenza e di fedeltà generalmente ricondotti al concetto di “crisi del rapporto fiduciario” (artt. 2104 e 2105 c.c.), può assumere rilievo anche l’elemento del “disvalore ambientale”.
La valutazione dell’adeguatezza e della proporzionalità della sanzione irrogata rispetto all’infrazione commessa dal dipendente deve tenere in considerazione (specie qualora si tratti della sanzione più grave quale è il licenziamento per giusta causa) deve spingersi sino a considerare la condotta alla luce della posizione e del collocamento del lavoratore all’interno dell’organigramma aziendale e, quindi, delle eventuali ripercussioni negative che il suo comportamento può avere sugli altri lavoratori.
In altre parole, la condotta del lavoratore è aggravata dal “disvalore ambientale” qualora il contesto e le circostanze concrete in cui è stata posta in essere concorrono ad elevarla a modello diseducativo o comunque disincentivante nei confronti degli altri dipendenti.
Proprio con specifico riguardo alla valutazione di adeguatezza di un licenziamento per giusta causa, in una recentissima pronuncia – l’Ordinanza n. 25969/2023 – la Corte di Cassazione ribadisce la necessità di considerare non solo il contenuto obiettivo, ma anche la portata soggettiva della condotta del dipendente, sino a comprendere l’elemento del “disvalore ambientale”.